“In questo momento della mia vita mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono. E’ cresciuta dentro di me un’ombra che ha cambiato il mio modo di vedere le cose. Sono consapevole che la mia carriera possa finire qui ma non ho rimpianti e non voglio averne”
Comunicare un proprio disagio non è mai facile, mostrarsi fragili è un atto di coraggio grandioso, molto più semplice è attaccarsi al passato per nascondere il presente.
“Probabilmente il mondo di cui ho fatto parte per tutta la mia vita, non fa più per me e non mi ci riconosco più. Sicuramente sarò cambiato io e il mondo va più veloce di quanto pensassi. Per questo credo che adesso sia arrivato il momento di non farmi più trascinare da questa velocità e di fermarmi per ritrovare chi veramente sono”
Le parole pesano soprattutto quando vengono utilizzate per esprimere un disagio, una sofferenza, un problema, una mancanza. Quando portano un fardello emozionale che da intimo si trasforma in pubblico e non sai mai quale tipo di reazione ne possa derivare.
Cesare Prandelli è un uomo di sport, un profondo conoscitore del mondo del calcio, avendolo praticato in passato come professionista e oggi, anzi sino ad oggi, come coach, raggiungendo grandi livelli, compresa la guida della Nazionale Italiana dal 2010 al 2014.
Eppure già da qualche settimana, alla guida della sua amata squadra, aveva mostrato segnali di sofferenza emotiva, dichiarandosi provato e stanco. Negli ultimi giorni la decisione di dimettersi dichiarando al mondo del pallone la sua fragilità.
Però non ha emesso un comunicato stampa, non ha convocato i giornalisti
e soprattutto non ha fatto un post sui social
Cesare ha semplicemente scritto una lettera e l’ha inviata al suo datore di lavoro. Ogni parola scelta da Cesare, siamo sicuri che a scriverla sia stato l’uomo e non il mister, ha un peso specifico che va letto con parsimoniosa attenzione. Sbaglia chi pensa che si sia sentito inadeguato, da profondo conoscitore del calcio inteso come sport e come industria, non avrebbe mai accettato questa sfida in corsa, se non si fosse sentito pronto.
Ha avuto l’onestà umana di fermarsi prima del burrone che probabilmente vedeva dinnanzi a se, mettendo la squadra, la società, i tifosi al riparo, e riparando anche se stesso e chi di più caro gli sta accanto.
Le parole pesano e quelle scritte da Cesare Prandelli sono un macigno che riporta al centro la fragilità umana, anche in un contesto apparentemente “ovattato” come quello del calcio, sempre più attento all’immagine da copertina social, piuttosto che a quei valori che dovrebbero diffondersi sin dai campetti degli oratori.
Ma forse non ci sono neanche più tanti campetti, né gli oratori, e neppure la consapevolezza che nello sport la sconfitta e la vittoria si affermano e si dissolvono molto rapidamente, e ciò che rimane è solo la reale motivazione che ha portato uno sportivo, ovvero una persona, ad eccellere.
La scelta di parole come disagio, ombra, velocità sono un segnale evidente di una comunicazione autentica, di un’esigenza di ascolto, frutto di una verità difficile da contenere. In qualunque mestiere, compreso l’allenatore di calcio, davanti ad una difficoltà che perdura, ad un risultato che non arriva, ad un problema che non si riesce a risolvere, la strada più semplice è quella di rispolverare le gesta del passato, richiamando vecchie glorie. In questo modo si insabbia il presente. Altra tecnica, più subdola ma che spesso funziona, è quella di “buttarla in caciara”, di innalzare i toni, di promuovere conflitti, annebbiando la vera realtà.
Cesare Prandelli ha scelto la vita, e lo ha fatto mettendo al centro ciò che di più prezioso ognuno di noi possiede: la coscienza.
Le sue parole trasudano di onestà e tenera coscienza, ha dichiaratamente ammesso di essere in difficoltà e lo ha semplicemente comunicato.
La sua comunicazione è stata una scelta e non un atto dovuto, una scelta che deve far pensare a quanto serve essere integri come persone prima ancora che come lavoratori.
L’autenticità porta unicità. Ora Cesare avrà il tempo di pensare come rimettere la “chiesa al centro del villaggio” come dichiarò con una metafora un suo esimio collega francese. E siamo tutti convinti che ci riuscirà.
A noi restano quelle parole. Parole che pesano. Parole che insegnano.
* Articoli pubblicati su blog di Affari Italiani The Ghost Writer
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